Paolo Volponi
Gianni Degli Antoni
L’Arte di VERA
Cammina su un filo conduttore…
Perfetto equilibrio….avanti
Passo dopo passo…
Rischio
La perfezione elimina i rischi…
L’Arte di Vera avanza…
Come un enigma…?
Cosa rappresenta?
Vera ha cercato e trovato
un nuovo filo conduttore…
che trasporta noi…la nostra storia…
la nostra vita…
Le opere di Vera…
non rappresentano
non sono cubismo
non sono astrattismo
non sono impressionismo…
Nel suo equilibrio
sul suo filo conduttore
attraversa tutti quei luoghi…
e li supera…
Dunque… enigma
enigma della non rappresentazione…
Si la rappresentazione
c’è ma è nella mente di chi osserva
si specchia…
vede la propria storia…
la storia dei suoi cari…
dei suoi desideri
della sua fantasia…
con un equilibrio che non cede mai…
Viaggia sui rischi…
sul suo filo sopra tutti
e ci porta lontano…
Ci fa costruire le nostre emozioni
grazie ad un astrattismo
ed a una concretezza
in perfetto equilibrio…
che ci lascia essere cubisti
espressionisti…
Insomma ci lascia essere Noi…
per quello che siamo
e per quello che vorremmo essere…
Mai uguali
diversi
ad ogni istante…
Su un proscenio illuminato da una luce diafana che riveste i corpi e le cose di una consistenza serica, Vera Santarelli fa recitare figure sottomesse e mortificate da corpi criticamente prossimi alla deformità, ma che nella propria estatica melanconia esibiscono una delicatezza inerme e un candore così aggraziato da neutralizzare qualsiasi attribuzione di sgradevolezza.
Andando ad analizzare il genoma stilistico di queste opere, si direbbe che una sorta di espressionismo introiettato e implosivo, responsabile di aver snaturato i tratti della figura con particolare evidenza quelli del volto – sia stato innestato su una matrice di segno diametralmente opposto, nella quale confluiscono la grazia sottile dei ritratti di Van Dyck, l’incanto lunare, ai confini con l’estraneità, caratteristico di Watteau, il chiarissimo e aristocratico incanto di Ingres. Esiste anche un’altra ragione fondamentale per chiamare in causa Watteau: la seduzione esercitata sull’artista dalla figura dell’attore, anomala circostanza del vivere in cui realtà e finzione giocano ad un reciproco scambio delle parti, per il quale travestimento e autenticità si presentano come entità equivalenti.
Il grafismo di Vera Santarelli, vale a dire la supremazia che nelle sue immagini ha la continuità della linea condotta secondo ritmi ascendenti, discendenti e spezzati, a segnare un netto confine fra il pieno e il vuoto, è di qualità inventiva.Non inganni la verosomiglianza delle figure umane, degli oggetti, dei luoghi di Vera Santarelli. Si tratta dell’ancoraggio mobile a un gavitello che tiene stretto il sembiante del vero ma lo porta con sè lungo imprevedibili correnti poichè il canapo cede all’impulso della fantasia e la pittrice favorisce la deriva allentando via via il nodo senza tuttavia discioglierlo completamente.La similitudine del gavitello può essere anche quella dell’aquilone. E’ ben filo d’aquilone quello che si sdipana dalla matita e dal pennello di Vera Santarelli: ne prendono il volo sagome, figure, fisionomie, che nella misura in cui distaccano e s’allontanano dalla matrice verosimile, veleggiano, si gonfiano, respirano, si anamorfizzano, secondo le ipotesi di un racconto gentile, ironico, allusivo, ammiccante.E’ così che il grafismo, pur mantenedosi intatto nel corso delle modificazioni inventive e pur rimanendo la principale chiave di lettura delle immagini di Vera Santarelli, si attenua, si volatizza e quasi scompare nel colore e in esso si assesta, di esso si nutre, da esso trae le ragioni del suo spessore, della sua traiettoria, delle sue precisioni e delle sue approssimazioni.Raggiungono in tal modo le immagini di Vera Santarelli ogni volta la chiusura e la compattezza cesellata del cammeo e come il cammeo si fanno guardare dall’alto senza appiattirsi anzi suggerendo sottili vie di fuga di tipo prospettico verso il fondo della scena con quel tanto di artificioso inganno che concorre ad aumentarne il senso fiabesco e gli accenni enigmatici.Rotondo e fisso sulla punta del pennello, come la punta prensile di un microscopio che va ingrandendo l’invisibile, l’occhio che Vera Santarelli spalanca attonito sui suoi volti di imprecisata età, ha la più legittima paternità nella straordinaria “imagérie” di quel grande inventore di fiabe disegnate che fu, negli anni Venti e Trenta, Antonio Rubino.Del tutto coerenti con questo modo di concepire l’immagine, dall’attimo in cui essa scatta dal primo segno all’arresto conclusivo dell’ultima pennellata, sono la tenerezza, il pallore, il tremore di lume a vento, il fremito quasi svaporante del colore di Vera Santarelli. Mai riempitivo, mai illustrativo, mai separabile dalla struttura disegnata che lo sorregge e della quale è, a sua volta insostituibile lievito e sostegno.
Come tante incantevoli “mademoiselles Rivière” stanno le signore e le signorine dipinte da Vera Santarelli. Esse ti osservano dalla superficie del quadro con piglio a volte interrogativo, a volte attonito, a volte timidamente sornione, con gli occhi di gattine sapienti collocate entro uno spazio che partecipa di una placida visione di sogno. Un poco appunto, come la delicata quindicenne dipinta da Ingres, in posa di tre quarti sotto una cornice ad arco, con quel vestito candido riecheggiante il motivo della innocenza e un limpido paesaggio sullo sfondo, annuncio di primavera e di un fiorire di femminilità velata di delicato erotismo e di una impassibile malinconia. Le figurette ritagliate da Vera nello spazio di un paesaggio sognato, sono appunti di diario sentimentale, o pure istantanee di madrigali simbolici, in cui compare il gusto “gotico” per la miniaturizzazione e per la pulizia di una pittura rifinita e lucente. Su questa tela dipinta si misura il temperamento espressivo di una artista che è venuta affinando e componendo in sintesi i motivi della sua poetica, che potrei assimilare a un certo umorismo sentimentale, più che intimistico, da leggere come controparte innocente di quella “ennui” moderna che ci ha dato, tanto per restare in Italia, le composizioni “magiche” o “metafisiche” dei vari De Chirico, Casorati e via dicendo.Nelle rappresentazioni di Vera Santarelli si legge tutto il fermento di dati autobiografici e di occasioni liriche che alimentano la sua vena di “piccolo maestro” delle luci e dei toni nell’impegno a tradurre l’emozione, intimista, in visione simbolica. Ne risulta uno sguardo compiaciuto e quasi divertito, sul dipanare di un’opera “buffa” che ha come posta in gioco le più ardue e più serie domande alla vita: il “giudizio di Paride”, per esempio, che somma la ricerca della identità femminile a quello della prova morale maschile; o l’incontro di Leda col cigno, dove l’opera della seduzione si enuncia nella necessità del travestimento e del gioco allusivo. A questa serie di metaforiche apparizioni, Vera sottopone le donnine protagoniste dei suoi quadri e le rende tornite e paffutelle, con aria di eterne adolescenti quasi imbozzolate nella loro meravigliosa pigrizia, che non è tanto passività, quanto il segno di un compiaciuto stato del corpo e dello spirito, come quando tu senti le fusa di un domestico felino. La pittura traduce bene il sentimento di questo permanere nel tempo, e pure oltre il tempo misurato dell’esisitenza ordinaria, perchè ciò che veramente vi compare è l’essenza del ritmo, di quella “vita” che non riusciamo mai ad acciuffare, né con la parola, né con le immagini. Di questa “vita” che trascorre già oltre il nostro stesso discorso, pare vogliano parlare i quadretti di Vera Santarelli, quando tornisce il volto beato e birichino di una bagnante sulla spiaggia di un “Adriatico dell’anima”, solcato da qualche bianca barchetta a vela, con i suoi azzurrini scoloranti nel cielo, tra nuvole compatte con anelli di fumo, a modo di diadema per la capigliatura bionda di un primo piano fin troppo emergente per non lasciare che lo sguardo indugi, oltre di lui, nel velo del paesaggio.Se, qualche volta, il vezzo e la maniera prendono la mano, cosicchè dal pennello di Vera non traluce più l’anima ma lo scherzo prefigurato, questo non toglie nulla al segnale poetico che la pittrice imprime alle sue tele per quel sottile piglio “ariostesco” in cui si racconta di donne e di amori (non certo d’armi e di cavalieri, che non scompaiono, ma restano un pò dietro le quinte della scena) al modo di una favola per bambini, che favola non è, per quanto è presa da un sentimento riflessivo dell’esperienza vissuta.Così lo spettacolo dipinto di Vera Santarelli si presenta come gradevolezza, per l’amorosa definizione dell’immaginato cromatico, tutto toni di fondo, biancorosa di incarnati, terre rosse e azzurrini graduati quasi al modo quattrocentesco: una attenzione per la pittura che va al di là del motivo, si distacca un poco dai temi prediletti e si compiace dei suoi risultati di superficie, virtuosa esibizione dell’elemento estetico formalmente compiuto.
I suoi personaggi immaginari entrano nella scena dipinta e trovano in essa il segno della calma riappacificazione come fossero le tracce di una rinnovata armonia di seguito ad avventurose tempeste dell’anima. Ma proprio in quella compostezza, che è lirica del sentimento e generosa ironia, si celebra il valore di una pittura che “sta”, come pietra o granello di sabbia a connotare la propria poesia.
Vi sono quindi tutte le più favorevoli premesse per una ulteriore crescita che può avvenire in qualsiasi direzione stanti le eccellenti disposizioni della pittrice.Scritto di Marco Viani in occasione della mostra tenuta a Torino nel 1993.
Il notiziaro culturale dell’Agenzia Giornalistica Italia ha segnalato la mostra che la Vera Santarelli ha tenuto a Bologna nel 1990.
Aldo Spinardi